La Chiesa è sempre stata tentata dalla costruzione “separata” della comunione ecclesiale. Così storicamente si è assistito alla parcellizzazione della comunità ecclesiale in gruppi ecclesiastici omogenei, in cui primariamente esercitare il principio di comunione. Ciascun gruppo poi avrebbe esercitato comunione con gli altri gruppi.
La distinzione ministeriale, poi, divenuta principio gerarchico, ha finito per originare distinzioni di dignità tra i vari gruppi ecclesiastici e dunque tra i vari livelli di comunione. Così la comunione episcopale fonderebbe la comunione presbiterale e quella presbiterale quella del popolo, dove la precedenza nell’ordine di causalità corrisponde ad una priorità in dignità e valore. La ratio che soggiace a questo modo di leggere la vita ecclesiale è chiaramente una ratio “ontologizzante”. Essa riduce la portata simbolica dei vari gradi d’autorità ecclesiale alla detenzione del fondamento della comunione: l’unità dei vescovi è il simbolo dell’unità delle loro chiese, ma essa non esaurisce la comunione delle chiese che essi presiedono; la comunione dei presbiteri con il vescovo è il simbolo della comunione della comunità diocesana ma non la esaurisce. La pienezza della comunione è data nell’intero corpo ecclesiale con Cristo, non dalla somma delle comunioni dei suoi gruppi.
La liturgia è maestra di comunione, essa ci fa pregare in ogni celebrazione eucaristica, con l’anafora, per l’unità della Chiesa e, nel fare ciò, ci indica tutti gli elementi di cui si è parlato fin qui, nel loro giusto ordine, però: «per la comunione al corpo e al sangue di Cristo / lo Spirito Santo ci riunisca in un solo corpo. / Ricordati, Padre, della tua Chiesa diffusa su tutta la terra: / rendila perfetta nell'amore / in unione con il nostro Papa N., / il nostro Vescovo N., / i presbiteri e i diaconi» (Preghiera eucaristica II).
La preghiera per la comunione ecclesiale è legata inscindibilmente all’epiclesi, alla preghiera d’invocazione dello Spirito santo, la progressione poi dal Papa all’intero corpo non è da intendere come emanazione dal più al meno importante, né tanto meno dal fondamento al fondato, visto che il fondamento è già stato ricordato appunto nell’epiclesi. La progressione è teleologica: non ci può essere comunione episcopale, presbiterale se non in ordine alla comunione ecclesiale, di tutta la Chiesa. Il principio regolatore, il paradigma e il fine è sempre la comunione ecclesiale. Occorre aggiungere che spesso questo principio di “servizio” del ministero ordinato alla comunione ecclesiale viene rivoltato a favore di una visione piramidale della Chiesa: il principio di servizio infatti può essere facilmente frainteso, portando alla giustificazione di una separazione netta tra chi per necessità ecclesiale deve essere posto al servizio della comunione con un ministero stabile, dagli altri fedeli; ponendo, così nello stesso tempo, quella articolazione ministeriale come fondamento di comunione – il che equivale a svuotare la priorità della comunione ecclesiale.
La prova della comunione episcopale e presbiterale è infatti la comunione con tutto il corpo ecclesiale. Un vescovo che vivesse in comunione con gli altri suoi confratelli vescovi, ma non anche in piena comunione con i suoi confratelli laici, presbiteri, religiosi della chiesa diocesana non sperimenterebbe né la verità della comunione episcopale, né tanto meno quella della comunione ecclesiale.
Spesso assistiamo, a tutti i livelli ecclesiali, alla contraffazione della comunione, sostituita con la sua controfigura, che è il corporativismo. Come la comunione ecclesiale costituisce il corpo ecclesiale, allo stesso modo il corporativismo crea un organismo analogo al corpo, e proprio per questo esso è insidioso: la corporazione. La corporazione è una modalità della funzione, è un insieme di omologhi, riesce a creare solo coesione, organizzazione, sodalizio, mutua protezione, ma non comunione. Il corpo invece è in sé stesso comunione, è unità di diversi.
Così, ha senso la presenza di gruppi laicali, di movimenti, di associazioni, ma occorre aver presente il loro carattere provvisorio. Essi devono restare luoghi di formazione cristiana, ma il loro fine non può essere la loro sussistenza indefinita. Avranno compiuto il loro compito se sapranno sciogliersi quando la comunione ecclesiale che essi promuovono sarà più consistente. Il loro fine infatti non può che essere l’edificazione della comunione ecclesiale e perpetuare una loro specifica “comunione interna” non corrisponderebbe né alla verità della loro funzione né a quella della loro vocazione. Allo stesso modo il “clero”, il cui modo di percepire l’appartenenza alla Chiesa non può essere filtrata primariamente dall’appartenenza alla “classe sacerdotale”: i presbiteri non fanno parte di un club esclusivo e non formano una élite formata per governare le comunità locali, essi non sono diversi in dignità dagli altri cristiani, che i presbiteri sono chiamati ad accompagnare e sostenere e con i quali devono vivere in piena comunione.
Troppo spesso assistiamo alla messa in opera di dinamiche corporativistiche e lobbistiche nella Chiesa, che offendono il senso profondo della comunione ecclesiale. La lotta per verificare il peso specifico di moviementi o gruppi, o peggio di fazioni e di correnti, al fine di stabilire chi debba avere l’egemonia, stravolge il senso stesso dell’ecclesia, che è l’assemblea convocata dal Cristo, sacerdote, maestro e pastore unico della Chiesa. Anche Pietro, primo dei Dodici, simbolo dell’unità ecclesiale, imparò il senso di questa sottomissione all’umile pastore della Chiesa, «Pietro, metti i tuoi passi dietro ai miei» (cfr. Mc 8,24), che è come dire «chi vuol essere il primo sarà lo schiavo di tutti, come faccio io» (cfr. Mc 9,35), chi è primo nella Chiesa è primo solo in Cristo.
Nessuna egemonia è ammessa nella Chiesa, né da parte di chi svolge un ministero, né da parte delle varie aggregazioni. Anche in questo la liturgia ci è maestra: il “noi”, che è il pronome che nella liturgia viene usato per la preghiera della Chiesa, istruisce sul senso di ogni ministero esercitato nella Chiesa. Non si tratta infatti di un plurale maiestatis: ogni ministro, ordinato, istituto o di fatto, pronuncia quella preghiera che è di ogni cristiano e di tutta la Chiesa. Il “noi” pronunciato nella liturgia è la pluralità racchiusa in unità, è esperienza dell’unità della Chiesa.