Da molti anni, e da diverse generazioni, è sempre più evidente un progressivo svuotamento del significato cristiano del Natale sostituito, nella società dei consumi, da altri contenuti: questa festa sembra ormai dedicata soprattutto alla coltivazione degli affetti familiari e delle relazioni amicali (da ciò, il fiorire di cene ed incontri “natalizi”) e, contemporaneamente, si caratterizza essenzialmente per l’acquisto e lo scambio di regali. Sullo sfondo, al massimo, si può trovare un generico richiamo alla solidarietà con chi ha meno, ed un invito alla pace e riconciliazione, “almeno in questi giorni”.
Ovvio che il Natale cristiano abbia poco a che fare con tutto questo; esso è piuttosto memoria e celebrazione della nascita del Salvatore, evento di incarnazione, non privo peraltro di una forte drammaticità, richiamata anche dalla liturgia, che affianca al 25 dicembre la memoria del martirio di Santo Stefano e il dramma dei Santi Innocenti. Dalla grotta al Golgota il passo è breve, troppo breve. D’altronde, il prologo di Giovanni, che la liturgia ambrosiana pone ininterrottamente come annuncio nella notte santa, ricorda che Gesù “Venne fra i suoi, /e i suoi non lo hanno accolto” (Gv 1, 11). Dunque ai fedeli di oggi, che ritengono di averlo accolto, il Natale pone davanti, ogni anno, questa opzione fondamentale, tra credere (= far posto), oppure voltare le spalle ad un dono che mai si esaurisce; e coloro che cercano di animare le liturgie natalizie – spesso partecipate anche da persone che normalmente non si vedono a messa ogni domenica – dovrebbero porsi totalmente a servizio di questa istanza, che è vero rispetto della verità, anche attraverso i canti. Sarebbe già un primo, prezioso, esercizio di discernimento valutare se i molti canti che consideriamo “tradizionali” delle feste natalizie siano in grado di veicolare questi contenuti; ci accorgeremmo che, in tanti casi, essi sono intrisi di un sentimentalismo zuccheroso e sterile, che dovrebbe suggerire un loro veloce accantonamento.
Provo dunque a formulare qualche proposta, consapevole ovviamente che traghettare un’assemblea tanto composita da un linguaggio musicale all’altro non sia sempre facile ed immediato; però, il rispetto del Natale, talvolta, necessita anche di un certo coraggio: che almeno la liturgia cristiana ne racconti i tratti più veri!
Pensando soprattutto alle celebrazioni della notte, magari opportunamente introdotte da una veglia di preghiera, trovo ancora adeguato un canto di qualche anno fa scritto da monsignor Sequeri. Si intitola E chi se non un angelo ormai (spartito in Come un desiderio – Rugginenti 1994; esecuzione anche nel Cd Bello è il Verbo – Rugginenti 2003); per caratteristiche strutturali, richiede di essere eseguito da un coro minimamente attrezzato. È un canto “di ascolto” o, meglio, di annuncio. Attraverso un registro narrativo abbastanza inusuale per i canti religiosi, cioè quello dell’ironia, esso rappresenta un forte invito a cogliere del Natale soprattutto il senso del mistero, un mistero che riguarda tutti, e che siamo “tenuti” a non svilire. Così comincia: Silenzio… / vi devo parlare / di cose vissute / che ancora non sono finite. // È giusto / che i vostri bambini / imparino presto / il senso di questa parola: ‘Natale’. // È vero / che sembra una fiaba, / se tu la racconti / soltanto perché l’hai udita narrare.
Il richiamo al silenzio apre, nell’andamento pastorale della melodia, all’urgenza di cogliere bene il senso di ciò che si racconterà, e che il ritornello si incarica semplicemente di evocare; ai fedeli radunati insegna l’apertura al desiderio, per essere capaci di lasciare ancora spazio alla sorpresa, ad un dono che nessuno può veramente contenere. Il brano vuole esplicitamente rappresentare un salutare richiamo che può raggiungere chiunque: fa’ silenzio, apri il tuo cuore, perché l’annuncio vero del Natale trovi posto in te.
L’apertura al mistero domanda poi parole per invocare il Signore che viene; lo si può fare anche in forma altamente poetica attraverso un canto scritto da D. M. Turoldo, su musica di G. M. Rossi: Sperando di darti carne (in Chiesa che canta – EDB 1975). Si tratta di un inno dalla struttura semplice ma non banale, con una melodia significativamente intima, certo non gridata, che invita alla concretezza di un Natale che apre al volto degli altri: Viviamo ogni anno l’attesa antica, /sperando ogni anno di nascere ancora, /di darti carne e sangue e voce, /che da ogni corpo tu possa risplendere.
Infine, pensando anche alla possibile presenza di bambini e ragazzi, può essere utile un canto scritto da me e da L. Bodega, che ha il compito di rinarrare in maniera semplice e “fotografica” gli eventi del Natale, attraverso però una presa di coscienza dell’istanza personale che quegli stessi racconti contengono. Così, con i tre ritornelli di Luce di Natale (in Sei con me ogni giorno -Rugginenti 1999 e Insieme blu – Rugginenti 2000) l’assemblea può rivolgersi ai personaggi del presepe (un pastore, i Magi, un angelo), perché i loro sentimenti, le loro speranze facciano parte del nostro modo di vivere il Natale: Sono anch’io, come voi, questa notte: / posso ritrovare della gioia il volto / che sorprende il tempo.
Canti come questi, ed altri ancora che siano affini per scelte espressive e musicali, mi sembra possano corrispondere utilmente ad un’animazione non scontata, non di routine, di uno dei momenti più rilevanti del percorso liturgico annuale. Senza, speriamo, depotenziarne il significato salvifico e la profondità spirituale.
Luca Diliberto