L’evangelo del Natale
Ci apprestiamo a celebrare nel Natale la nascita di Gesù, il «principe della pace», colui che, annuncia la lettera agli Efesini, «è la nostra pace» e «di due ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che li divideva». Egli, continua il testo paolino, «è venuto ad annunciare pace a voi che eravate lontani, e pace a coloro che erano vicini» (cf. Ef 2,14-18). Avvertiamo tutta l’urgenza, in questi tempi così difficili e drammatici, di poter accogliere una parola e una testimonianza che ci guidino su cammini di riconciliazione e su sentieri di pace, abbattendo mura e consentendo alle differenze, che pure ci sono e rimangono, di convivere senza escludersi vicendevolmente. Al tempo stesso facciamo la diuturna esperienza di mura che non vengono abbattute e contro le quali sembrano infrangersi le nostre speranze e i nostri desideri. L’evangelo del Natale può allora illuminarci, sostenendo la nostra speranza e sollecitandoci a compiere scelte personali apparentemente deboli e povere, tanto più se rapportate alla complessità dei problemi e alla drammaticità dello scenario mondiale, ma che acquistano senso e fecondità se innestate nel mistero del Figlio di Dio che viene nella nostra carne, come luce che sembra soffocata dalle tenebre, mentre al contrario le rischiara dal di dentro, proprio facendosi da esse come inghiottire. «La luce splende nelle tenebre / e le tenebre non l’hanno vinta» (Gv 1,5).
Torneremo ad ascoltare, nella notte di Natale, il racconto di Luca, che mette a confronto la potenza di Cesare Augusto, in grado di far muovere «tutta la terra» all’ordine del suo censimento, e l’inerme impotenza di un bambino, avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia (cf. Lc 2,1.6). Eppure le Scritture invitano a riconoscere in lui il «Salvatore» (cf. v. 11). Sotèr, «salvatore», era un titolo che l’imperatore romano attribuiva a se stesso. Ecco il contrasto paradossale che, con il suo modo di narrare, l’evangelista pone tra la potenza di colui che pretende di essere il sovrano della storia, e l’impotenza di questo bambino, il vero salvatore del mondo. In lui già si manifesta la debole potenza della Croce, la vittoria del Crocifisso, il vero sovrano della storia, il vero principe della pace. Infatti, il segno affidato ai pastori prefigura il segno che sarà innalzato sul Calvario. Il bambino è fasciato, come verrà fasciato nella sindone il corpo privo di vita di Gesù. È «adagiato» (keimenon: cf. 2,12.16) in una mangiatoia: è il medesimo verbo che Luca utilizzerà per narrare che Gesù sarà posto da Giuseppe di Arimatea in un sepolcro «nel quale nessuno era stato ancora sepolto (keimenos)» (Lc 23,53). Questo è il segno che anche noi, insieme ai pastori, siamo sollecitati a riconoscere e interpretare: nell’impotenza di questo bambino fasciato e adagiato in una mangiatoia, nell’impotenza del Cristo crocifisso, avvolto nella sindone e deposto in un sepolcro, dobbiamo contemplare il vero Salvatore del mondo. Ecco lo stile sorprendente con cui Dio agisce nella storia: la sua potenza si manifesta nella debolezza, la sua gloria si rivela in un segno apparentemente così ordinario da sembrare insignificante, debole e impotente come un bambino che non può muoversi, che non ha ancora imparato a parlare, che in tutto dipende dalla cura amorevole di colei che lo ha generato. San Paolo parlerà dell’insipienza della Croce, stoltezza per i pagani, scandalo per i giudei, ma per noi credenti potenza e sapienza di Dio (cf. 1Cor 1,17-25). Ebbene, la stoltezza e lo scandalo della Croce sono già la stoltezza e lo scandalo di questa nascita: anche noi, come i pastori, siamo chiamati ad accogliere nell’insipienza di questo segno tutta la potenza e la sapienza di Dio, poiché «ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini» (1Cor 1,25).
Fasce di amore
C’è però un altro contrasto che la pagina di Luca evidenzia. Il primo lo abbiamo colto sul versante di Dio e del suo modo di agire nella storia, il secondo concerne noi e i nostri atteggiamenti. All’ordine sovrano di Augusto «tutta la terra» obbedisce e si sottomette. Al segno del bambino corrisponde l’amore con il quale una madre lo accoglie, lo avvolge in fasce e lo depone in una mangiatoia. Su questa immagine il racconto insiste, riproponendola ben tre volte (cf. Lc 2,7.12.16). Gli ordini dei potenti della terra pretendono la nostra sottomissione, ma sono i gesti fragili e deboli dell’amore, come quelli che Maria compie, a sprigionare una fecondità paradossale e insperata, capace di scardinare dal di dentro la logica del potere, della guerra, della violenza, per porre piccoli semi di pace che, morendo, potranno portare un frutto abbondante, nella logica di Gesù, il chicco di grano ora deposto in una a mangiatoia per essere poi deposto in una terra di morte (cf. Gv 12,24). Anche questa è una piccola luce che risplende nelle tenebre della storia, le quali sembrano soffocarla, eppure ne vengono rischiarate.
Il coraggio della pace, l’audacia della speranza, ci chiedono certo di protestare contro la guerra attraverso manifestazioni, gesti pubblici evidenti, l’obiezione di coscienza o precise strategie politiche ed economiche; sono però indispensabili anche i gesti personali di conversione, con i quali possiamo fasciare di tenerezza e di cura le relazioni a noi più prossime, persino quelle apparentemente insignificanti, come può esserlo un bambino nato in un oscuro villaggio della Galilea. L’impegno per la pace ci chiama dunque a una conversione interiore. È tuttora di estrema attualità il Discorso di sant’Ambrogio pronunciato da Carlo Maria Martini nel 2001, subito dopo l’11 settembre e l’attentato alle Torri Gemelle di New York. Mi limito a richiamarne un passaggio. Come sempre Martini aveva cercato luce in un testo biblico che interpretasse quanto stava accadendo, trovandola in Luca 13, episodio in cui riferiscono a Gesù dei galilei fatti uccidere da Pilato e dei diciotto uomini uccisi dal crollo della torre di Siloe. Gesù, di fronte a questi eventi tragici, fa un’affermazione di primo acchito sconcertante: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei o quei diciotto uomini più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, vi dico, ma se non vi convertirete perirete tutti allo stesso modo» (cfr. Lc 13,1-5). Commentava il Cardinale:
Gesù non intende per nulla togliere a ciascuno la sua concreta responsabilità. Ognuno è responsabile delle sue azioni e ne porta le conseguenze. […] Gesù sa che ciascuno deve prendere le sue decisioni morali di fronte alle singole situazioni. Ma gli importa molto di più segnalare che tutti gli sforzi umani di distruggere il male con la forza delle armi non avranno mai un effetto duraturo se non si prenderà seriamente coscienza di come le cause profonde del male stanno dentro, nel cuore e nella vita di ogni persona, etnia, gruppo, nazione, istituzione che è connivente con l’ingiustizia. Se non si mette mano a questi più ambiti più profondi mutando la nostra scala di valori tra breve ci ritroveremo di fronte a quei mali che abbiamo cercato con ogni sforzo esteriore di eliminare.[1]
Quattro passi
Sono partito dalla Lettera agli Efesini e ora vi ritorno. Il Crocifisso, che abbate le mura di separazione e fa la pace, ha la forma di quell’amore che, come la lettera afferma poco più avanti, conosce una quadruplice dimensione: l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità (cf. Ef 3,17-19). È come una croce che si estende verso l’alto, scende in profondità e allarga le sue braccia da destra a sinistra, da oriente verso occidente. Le quattro dimensioni dell’amore ci suggeriscono così quattro passi da compiere per una conversione personale alle logiche della pace.
Un primo passo è verso l’alto. La pace è dono che scende dall’alto. Viene da Dio, è frutto di una promessa, ha bisogno di coltivare e custodire l’orizzonte di una trascendenza. La pace e la nonviolenza, per coloro che credono in Dio o in qualche modo cercano il suo volto, hanno bisogno di conoscere sempre meglio, in modo più profondo, il vero volto di Dio, come Dio della mitezza e non della violenza, come Dio della libertà e non della schiavitù, come Dio del popolo oppresso e non del faraone o di ogni altro oppressore, come Dio della pace giusta e non della guerra santa, e così via.
«Nessuna religione è terrorista». La violenza è una profanazione del nome di Dio. Non stanchiamoci mai di ripeterlo: «Mai il nome di Dio può giustificare la violenza. Solo la pace è santa. Solo la pace è santa, non la guerra!».[2]
Un secondo passo scende in profondità, nell’interiorità della vita di ciascuno di noi e ci chiede un movimento personale di conversione. In Matteo 18 Gesù insiste nel ricordare che una convivenza nella pace ha bisogno di fondarsi su un perdono da offrire non solo sette volte sette, ma settanta volte sette (cf. Mt 18,21-22). La costruzione della pace necessita di una disponibilità al perdono.
Grazie a Dio, c’è anche un eccesso del bene, e quando è che si ha l’eccesso del bene? L’eccesso del bene si ha quando il bene supera e travalica il puro ‘do ut des’, cioè la pura contrattualità: “tu mi dai tanto, io ti do tanto, ti pago”. L’eccesso è invece «la gratuità, l’andare oltre, il fare ciò che non è richiesto, il perdonare al di là di ciò che ci si aspetta. Un eccesso che nei Vangeli è proprio di Gesù. E se è proprio di Gesù vuol dire che in qualche modo è proprio di Dio. Cioè, Dio è questa eccedenza, è questo andare al di là di sé».[3]
Il terzo passo conosce la fatica di una lunghezza, come disponibilità a fare un passo in più rispetto all’odio, alla violenza, alla vendetta. Richiamo alla memoria ancora alcuni versetti di Matteo, tratti dal Discorso della Montagna: «Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente. Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu pórgigli anche l’altra, e a chi vuole portarti in tribunale e toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. E se uno ti costringerà ad accompagnarlo per un miglio, tu con lui fanne due. Dà a chi ti chiede, e a chi desidera da te un prestito non voltare le spalle» (Mt 5,38-42). Vivere questi atteggiamenti non significa entrare in un atteggiamento di passiva rassegnazione di fronte al male; al contrario, ci chiede di assumere quell’attività creativa e creatrice che consente di compiere un passo più lungo, di percorrere un miglio in più. Questa lunghezza ha anche un altro risvolto. Rimane consapevole di come questo sia un traguardo alto, non immediatamente raggiungibile. È necessario pertanto misurarsi con la lunghezza del cammino, che esige la pazienza dei piccoli passi, da fare uno dopo l’altro, con gradualità, accettando il limite e la durata temporale, purché siano fatti nella giusta direzione, con il giusto orientamento.
Infine, l’ultimo passo assume su di sé la dimensione della larghezza, che evoca il tema dell’accoglienza, dell’ospitalità. Quello della pace è uno stile ospitale che, direbbe ancora Francesco, abbatte mura e costruisce ponti, non espelle fuori ma accoglie dentro. Conosce in particolare l’accoglienza verso tutti coloro che, pur appartenendo ad altre tradizioni religiose, oppure affermando di non credere affatto, sono comunque animati dalla medesima ricerca della pace dentro l’orizzonte del bene comune. La nonviolenza è uno stile che abbatte steccati e crea cammini comuni, condivisi, anche tra tradizioni religiose, culturali, etniche, differenti tra loro. La città che desideriamo costruire non ha il profilo di Babele, edificata con mattoni tutti uguali, ma quello della Gerusalemme celeste, che risplende della preziosità di pietre l’una diversa dalle altre.
[1] Il testo integrale del discorso, pronunciato il 6 dicembre 2001 e intitolato «Terrorismo, ritorsione, legittima difesa, guerra e pace», è ora disponibile ne I Meridiani della Mondadori: C. M. Martini. Le ragioni del credere. Scritti e interventi, a cura di D. Modena e V. Pontiggia, Mondadori, Milano 2011, 1659-1676; il testo qui citato è a pag. 1669. Il discorso ha trovato la sua prima pubblicazione in RDM 92 (2001), 1801-1814; può essere letto anche in Ricominciare dalla Parola, Discorsi, interventi, lettere e omelie 2001, EDB, Bologna 2002.
[2] Francesco, La non violenza: stile di una politica per la pace. Messaggio per la celebrazione della L Giornata mondiale della pace, 1° gennaio 2017, 4.
[3] Questo testo è tratto da una riflessione, al momento inedita, che il Cardinale Martini ha tenuto nella mia comunità (Monastero Ss. Trinità di Dumenza), nel maggio 2006.